Dopo l’influenza bisogna re-cu-pe-ra-re.
Più facile a dirsi che a farsi, soprattutto quando il concetto di recupero si sta ogni giorno un pochino più allontanando dagli standard che noi stesse ci siamo poste come obiettivo.
Fateci caso: in ogni aspetto del vivere, che sia lavoro, famiglia o salute, siamo in grado di sostenere per esperienza, abitudine, resistenza e voglia qualsiasi tour de force. Ore di straordinario sul lavoro che non ci spaventano,cure mediche concentrate e drastiche, assistenza faticosa agli anziani che non ci pesa fornire: siamo abituate da sempre a fare, e facciamo senza fare un plissé.
Diligenti e concentrate, impegnate e attente facciamo quello che ci viene richiesto, quello che sappiamo deve essere fatto. Poi, quando l’adrenalina si smorza, il morbo ci lascia, la porta di casa si chiude su una giornata impegnativa ci ritroviamo a fronteggiare il recupero che richiede qualche sfozo in più, che è sempre un po’ meno veloce e brillante di quanto vorremmo. O, almeno, di quanto ci aspetteremmo.
Non ci vergogniamo di rispolverare la saggezza popolare delle nonne: “il brodo di pollo fa miracoli” e trangugiamo litri di spremuta di arancia e bustine di fermenti lattici ma… la tabella di marcia non è più la stessa di quando snocciolavamo la terapia di cortisone ai nostri figli (se la nostra è stata la generazione degli omogeneizzati, quella dei nostri figli è la “generazione Bentelan”) invece che su noi stesse.
Quando ci si curava a aspirine e gin and tonic perché, raffreddore o no, non si rinunciava a una serata in discoteca. Quando un giorno di permesso malattia ci sembrava un’implicita ammissione di resa.
Credo che dovrò a malincuore farmene una ragione: ho guardato anche su Google ma non ho trovato la cura. Perciò insisto con bustine e spremute, consapevole di dover rivedere qualche parametro.
Non se ne esce, ma per non restare qui a fare la convalescente depressa e per fare di necessità virtù ho iniziato a produrre scorzette d’arancia candite, non sia mai che ci scappi un’attività alternativa. Un po’ come la composta di mele di Diane Keaton in Baby Boom, uno dei miei film cult.
E perdonatemi se prendo in prestito il titolo della fondamentale autobiografia di Simona Ventura (sono stata malata, giustificatemi, please!): crederci sempre, arrendersi mai!
Lo so, sono messa peggio di quanto credessi, ma domani starò meglio. Lo giuro.