Il potere consolatorio delle bignole

Tenere i baiocchi del Mulino nel cassetto in ufficio per i momenti difficili, allungare la mano verso il pacco di grissini che sporge dalla borsa della spesa mentre si è in coda al semaforo, scaraventarsi sui Biraghini appena entrata in casa prima ancora di togliersi il cappotto e con la borsa in mano, mangiare davanti alla Tv quei cioccolatini che ci hanno regalato a Natale e che avevamo giurato di tenere per una cena con gli amici.

Scene di quotidiana bulimia che costellano le nostre normali giornate da acrobate dell’esistenza in un personale Cirque du Soleil senza colonna sonora. Pochi istanti vanificano ore di palestra, chilometri di corsa, costose visite dalla nutrizionista che ci aveva espressamente detto “può mangiare di tutto ma mai fuori pasto”.

Però a volte c’è bisogno di quella consolazione che dallo stomaco va direttamente al cuore e al cervello, come se muovere le mandibole e far funzionare i succhi gastrici con qualcosa di gratificante al palato avesse lo stesso effetto che stritolare una pallina antistress di gomma. Ed è per questo che ci si compra un vassoietto di bignole, meraviglie della pasticceria torinese, piccolissimi (è solo così che sono le vere bignole) gusci morbidi dal ripieno cremoso, che si mangiano come le ciliegie: una via l’altra.

Crema, cioccolato, zabajone, glassa rosa, bianca, marroncina e poi ancora rosa o bianca, finche ce n’è, lasciando lì le carte pieghettate, senza sensi di colpa. L’autoassoluzione arriva prima ancora che sia sparita l’ultima ed è lapalissiana,definitiva, senza appello: fanculo, alla 42 ci penserò domani.
E il giorno dopo allungare di 500 metri il giro di corsa.

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