PERCHÈ HO UNA PASSIONE PER “UN POSTO AL SOLE”

OGNUNO HA LA SUA GUILTY PLEASURE, LA MIA É SU RAI TRE DAL LUNEDI AL VENERDI ALLE VENTI E CINQUANTA. VE LA SPIEGO QUI

Ci sono le serie, le mini serie, le soap opera, le sit-com, le telenovelas. E poi c’è Un Posto Al Sole.

UPAS, come la chiamano gli iniziati, racconta le storie degli inquilini di Palazzo Palladini, “il” condominio di Posillipo, ormai inserito quasi d’ufficio nei tour turistici di Napoli, tra i Quartieri Spagnoli, Castel dell’Ovo e il Teatro San Carlo. 

La soap opera più longeva della televisione italiana – nonché la trasmissione più vista di RAI3 (sì, anche più di Geppi Cucciari) – va in onda dal 1996 con la sola interruzione durante il COVID, quando però è stata riproposta la stagione del 2012 con funzione di placebo, a mo’ di metadone. Perché UPAS è veramente una droga da assumerne in dosi quotidiane – sabato e domenica esclusi – di circa mezz’ora in prossimità del pasto serale.

Io, che sono un’amante della fiction fin da quando ho letto per la prima volta I Promessi Sposi, esempio di purissima fiction con tutto quell’armamentario di amore, guerra, fuga, inseguimento, rapimento, assassinio, politica, Storia (con la maiuscola) Provvidenza (pure), morte e lieto fine che è la struttura portante di ogni feuilleton, ho guardato, guardo e guarderò Un Posto Al Sole.

Ma perché? Chiederanno i miei venticinque lettori (cit.) Con tutta la roba che puoi trovare su Netflix, Sky e tutto il cucuzzaro? Ecco perché:

È la sigla ipnotica davanti alla quale ci si tolgono le scarpe dopo una giornata di lavoro mentre si cerca di capire se in frigorifero c’è qualcosa per arrangiare una cena. 

È il format che ogni uomo di televisione vorrebbe avere inventato ma è stato quel genio di Giovanni Minoli che lo ha importato dall’Australia. Gianni, grazie di esistere anche soltanto per Mixer e Un Posto al Sole.

È l’insieme di personaggi con cui sono invecchiata (nel genere fiction, naturalmente. Perché sono invecchiata anche con Enrico Mentana, ma è un altro campionato). Numericamente parlando sono più le volte che ho visto Filippo Sartori di mia sorella e conosco l’ubicazione, la metratura e l’arredo di ognuno degli appartamenti molto meglio di quelli del condominio dove abito da venticinque anni.

È la cornice talmente immutabile che qualunque sia il momento in cui l’ho abbandonata, quando ci sono tornata mi sono bastate un paio di puntate per riprendere il filo della narrazione.

Perché odio il termine “distopico” usato ormai persino per descrivere un risotto, e fortunatamente le storie di Palazzo Palladini sono sincronizzate con il calendario reale, perciò se Raffaele fa il presepe nell’androne siamo sicuramente a dicembre e io sto contemporaneamente addobbando l’albero, quando scatta l’ora legale anche in Un posto al Sole spostano le lancette.

Perché hanno appena finito di girare alcuni episodi a Torino e sono curiosa di vedere la città meno “napoletana” d’Italia in una trasmissione così partenopea.

Perché a seguito di una débâcle sentimentale, quando è bene ancorarsi a qualcosa e aspettare che passi il peggio per non deragliare, il mio punto fermo è stato UPAS: un appuntamento fisso, quotidiano e rassicurante che mi regalava una mezz’ora di distrazione e anche argomenti di discussione con mia figlia. Molto meglio che imbottirsi di antidepressivi.

Perché le storie di Palazzo Palladini, oltre alle dinamiche familiari, tra amori, piccole rivalità e semplici eventi quotidiani, trattano spessissimo argomenti universali come adozioni, molestie sul lavoro, omosessualità, malattia e prevenzione, camorra… temi su cui chiunque può riflettere e discutere, a piacere.

Perché di UPAS diventano tifosi tutti quelli che ne hanno vista almeno una puntata, qualunque sia il genere, la posizione sociale, la professione: al buffet di una inaugurazione ho sorpreso il dirigente di un’importante istituzione culturale discutere fitto fitto della situazione sentimentale tra Marina e Roberto con una giornalista, so di stimatissimi avvocati che alla fine delle riunioni si defilavano velocemente per poter arrivare a casa entro le 20,50, io stessa ho passato molte pause caffè a farmi riassumere dalle colleghe le puntate che mi ero persa.

Perché una delle cose divertenti di UPAS è parlare di UPAS. Nè più nè meno di quello che fanno i supporter di qualunque altra passione, dall’unicinetto al calcio.

Perché pochi di noi sono stati dentro un carcere minorile, quasi nessuna vive nel centro di Manhattan o lavora in un’agenzia pubblicitaria di Parigi abbigliata in modo costoso e strambo.

Ma il portiere, la dottoressa, la palestra, il baretto dove ritroviamo sempre gli stessi clienti, l’amica che ha problemi per una separazione, i ragazzi che crescono sono figure e luoghi che popolano la nostra vita di tutti i giorni, in cui spesso ci riconosciamo o in cui riconosciamo qualcuno che conosciamo.

Perché UPAS siamo i noi di ogni giorno. Ogni sera alle 20,50.

(Nella foto mi vedete con Michelangelo Tommaso, alias Filippo Sartori in UPAS, di passaggio a Torino)

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4 Comments

  1. says: Alessandra

    Gentile signora e amica di Madamando, mi chiamo Alessandra e come lei sa ho di recente trascorso cinque mesi in ospedale. Mesi meno brutti di come si potrebbe pensare, grazie all’appuntamento quotidiano con l’invincibile Upas. Con molto affetto, una fan.

    1. says: admin

      Cara amica Alessandra, Upas è una mano santa, una delle poche certezze a cui possiamo aggrapparci nei tempi grami. Visto il risultato che ha ottenuto con Upas, oltre che con la sua strenua volontà e l’affetto di chi le sta vicino, farei brevettare questo prodotto come specialità farmacologica di supporto. Un abbraccio

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