Avrei voluto che le cronache delle Madame in quarantena rappresentassero per tutti soltanto un ricordo da sfogliare quando la paura fosse passata. Purtroppo si sono rivelate invece la prima parte di un racconto che da oggi, dopo un intervallo in cui mi sono chiesta se fosse il caso di farlo e molti miei lettori mi hanno aiutato a trovare la risposta, riprende più o meno dove si era interrotto, sei mesi fa.
Dove eravamo rimasti? Al 18 Maggio, appena uscite da quella che allora chiamavamo quarantena, quando tutto sembrava, se non proprio finito, almeno sul punto di.
Sembravano lontani i balconi, le bandiere, i canti, la ricrescita, le città deserte. Era il momento del “ripartiamo”, del “ce la faremo” e dell’ ”andrà tutto bene”.
Certo, rimaneva ancora quell’ impiccio della mascherina e delle code dal panettiere e dal macellaio per non fare ressa davanti al bancone, ma i mercati non avevano più gli ingressi contingentati, i cani tornavano a fare un numero di pisciatine quasi normale e il caldo – nemico di qualunque virus (non serve essere virologo per sapere che in estate si beccano il raffreddore solo quelli che si piazzano sudati davanti al condizionatore a palla) – faceva il suo dovere, offrendoci una tregua che abbiamo scambiato per una vittoria.
Sui sentieri di montagna e sotto gli ombrelloni era tutto un fiorire di granitiche certezze e logiche dimostrazioni relativamente alla contagiosità degli asintomatici e a quello che si poteva tornare a fare en souplesse, alla faccia dei cauti, dei perplessi e dei preoccupati: insomma, dei rompicoglioni.
Dei due dogmi che anche il mitico Fauci consigliava a milioni di americani – la mascherina e il distanziamento – la prima è stata prontamente archiviata con la scusa del caldo e del fatto che ci costringeva a respirare anidride carbonica autoprodotta e il secondo veniva adattato “a fisarmonica”, secondo convenienza: come se il virus sapesse cogliere la sostanziale e sociologicamente fondamentale differenza tra un assembramento di estranei e una tavolata di dieci amici in pizzeria.
Nei giorni più bui della quarantena (solo Lilli Gruber e pochi altri lo chiamavano già lockdown) avevamo avuto nell’ordine: i Costituzionalisti da tastiera che si indignavano perché “nessuno può dirmi cosa devo o non devo fare”, le furbette della ricrescita che facevano andare il parrucchiere a casa (e lo si era capito dalla chioma perfetta sfoggiata nelle dirette zoom), chi non rinunciava alla colf e anche chi, dato che si doveva spazzare il pavimento e stirare le lenzuola da sé, faceva passare sotto silenzio la remunerazione delle ore perse.
Nell’estate dello scampato plexiglas tra un ombrellone e l’altro donne che trentacinque anni fa mentivano spudoratamente ai loro genitori spergiurando di andare in vacanza solo con femmine, hanno finto di credere che i loro figli ventenni in Sardegna passassero le serate a contemplare la luna in due, tre o al massimo in sei, regolarmente distanziati.
Nel frattempo, come se non ci potessero essere preoccupazioni più serie, si discuteva serenamente della prostata di Briatore e dei banchi a rotelle. E va bene che d’estate i discorsi sono futili, ma a tutto ci dovrebbe essere un limite.
Al massimo, pensavamo, quest’anno avremmo fatto anche NOI – noi sessantenni, noi generazione invincibile, noi forever young – il vaccino antinfluenzale. Tanto per metterci al riparo.
E per rassicurarci sul contagio ci sarebbe stato, eventualmente, semmai, il tampone. Ecco, appunto….
1.continua