“Un’ idea luminosa e con un pizzico di follia”

La settimana del Salone del Libro a Torino fa più primavera delle rondini. Il mio primo salone è stato veramente il primo: maggio 1988. Quello inaugurato da Josif Brodksij, che pronunciò la frase del titolo.  Per una giovane mamma impiegata part time in casa editrice la corvée allo stand era di rigore, e ci ho pure portato la creatura, di cui ho una foto davanti allo struzzo Einaudi .

Non so se qualcuno se li ricorda, ma gli stand del primo Salone erano composti da moduli triangolari, in una specie di finto marmo simil  “edicola funeraria” che dava agli spazi di Torino Esposizioni  un’atmosfera cimiteriale un po’ stile Père Lachaise. Nonostante ciò l’entusiasmo fra gli addetti ai lavori era alle stelle, alla faccia di chi sabaudamente non credeva possibile nemmeno un’edizione n.2, figuriamoci arrivare alla 27esima.

Era la tipica esaltazione dei pionieri,  e il tempo ci ha dato ragione, premiando l’entusiasmo: per questo ogni anno vado al Lingotto con la sensazione di partecipare a qualcosa che sento anche un po’ mia.

Per una lettrice accanita e onnivora come me il Salone è la pacchia assoluta. Più che agli incontri con gli autori – che seleziono per mancanza di tempo e perché sembrano un po’ tutti delle mini puntate di Che tempo che fa – mi piace riempirmi gli occhi con la grafica delle copertine, con i  titoli, con le presentazioni dei contenuti e le biografie degli autori sui risvolti di copertina, adoro individuare libri nuovi di cui mi sono persa la recensione su La Lettura o su TTL oppure scoprire la ristampa di classici di cui ho memoria  dai tempi della scuola.

Lo ammetto, non sono tipo da e-book. Amo il contatto fisico con la pagina, con la carta, con l’oggetto-libro. Ho avuto la grandissima fortuna di poter “fare” dei libri e l’ho imparato in un tempo in cui le bozze si leggevano con attenzione e non con il correttore automatico, che gli spazi e le interlinee erano parole che significavano precisione, un tempo in cui si usava il tipometro e non il computer. Sembrerò coeva di Gutenberg, ma ancora oggi quando leggo,  per la forza dell’abitudine o per deformazione professionale  mi sorprendo a fare attenzione alle parole – e non soltanto per il loro significato –  a individuare refusi e a cogliere minime incongruenze.

Ma gli spazi della punteggiatura, quelli  non li padroneggio ancora.

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