Voleva un matrimonio perfetto, come lo aveva sempre sognato. Come tutte lo sognano. Aveva fatto impazzire tutti per i dettagli, anche i più piccoli, ma sembrava che intorno a lei nessuno ci facesse caso quindi doveva sbattersi perché ogni cosa fosse impeccabile, senza una sbavatura, in ordine.
Negli ultimi mesi aveva anche perso il sonno per l’ansia di dover stare dietro a tutto. Gli invitati, gente che non si era mai vista né sentita per anni e parenti sconosciuti erano stati inseriti nella lista fatta di due fogli di excel dove, applicando i filtri, li poteva ordinare tutti e centottanta secondo l’ordine alfabetico, la famiglia di appartenenza, la provenienza geografica e il fatto che avessero o meno dei bambini da sistemare in chiesa e al ristorante.
Aveva diligentemente analizzato, confrontato e riportato le quaranta voci di budget scaricate dal sito di una famosa wedding planner. Dal cuscino per le fedi al DJ, dal bouquet alla torta, tutto quello che si poteva prevedere era stato previsto, in ordine di importanza. Per il meteo si poteva fare poco, ma se ci fosse stata la possibilità di rivolgersi a qualcuno per ottenere delle certezze avrebbe fatto anche chilometri pur di sentirsi dire “stia tranquilla signorina, non pioverà”.
Si era perfino fatta una cultura sui fiori di stagione passando un’intera mattinata dalla fioraia e alla fine non ricordava se avesse scelto i tulipani perché le piacevano veramente oppure per sfinimento. Ma in fondo andava bene così: i tulipani sono dei fiori ordinati, senza troppi fronzoli.
Come era senza fronzoli il vestito, che aveva voluto elegante ma semplice: nessuna balza, tulle o Swarovsky come quelli visti in TV. Un bel tessuto, consistente e di buona qualità, che restasse in ordine e non si stropicciasse troppo visto che doveva fare un viaggio di mezz’ora in auto prima di arrivare alla chiesa fuori città. Era quella mezz’ora a preoccuparla più di ogni altra cosa, perché avrebbe dovuto trascorrerla a tu per tu con suo padre, un grandissimo rompicoglioni su qualsiasi argomento, che come tutti gli uomini non capiva nulla di matrimoni ma soprattutto negli ultimi mesi si era offeso in media un giorno si e uno no perché riteneva che fosse diventata scostante e antipatica mentre invece lei aveva un mucchio di cose di cui occuparsi e avrebbe tanto voluto non doverlo tranquillizzare in continuazione.
I lavori in casa erano andati avanti: quelli più grossi erano già terminati, per il resto ci sarebbe voluto del tempo perché ogni maniglia, lampada, mobile sarebbe stato scelto con cura maniacale e la fretta era controindicata. La cucina era ipertecnologica, con tutti gli accessori, addirittura la mini cantinetta a temperatura controllata.
Di tutti gli ambienti della casa quello di cui andava più orgogliosa era la scarpiera. Altro che “precotto” Ikea: se l’era studiata con il falegname, centimetro per centimetro. Tanti ripiani per mettere le sue centinaia di paia divise per colore, stagione, altezza dei tacchi. Era il suo orgoglio, quella scarpiera; aveva usato tutto lo sgabuzzino in fondo al corridoio e non permetteva a nessuno di entrarci. Marco poteva benissimo mettere le sue scarpe sulla rastrelliera in lavanderia e quelle fuori stagione nei ripiani alti dell’armadio, più che sufficienti per lui che usava sempre le stesse fino a quando non facevano pena .
Aveva lasciato un posto libero per le scarpe da sposa. Le aveva scelte comode, con il tacco altissimo e il plateau, così ci guadagnava in altezza e l’abito “cadeva” che era una bellezza. La pianta era larga in modo da poter ballare tutta la notte senza avere quella espressione sofferente e scomposta che finiva di sicuro in una foto. Appena la truccatrice avesse terminato il lavoro e l’hairstylist avesse infilato anche l’ultima forcina per tenere a posto lo chignon le avrebbe indossate tanto per farci un ultimo giro, anche se le aveva tenute nei piedi quasi ogni giorno almeno per mezz’ora, girando per casa per ammorbidirle. Le aveva addirittura portate nella casa al mare quando ci era stata l’ultimo week end per rilassarsi un po’ prima del giorno fatidico.
E all’improvviso le vide, come se fossero davanti a lei: le sue scarpe da sposa nell’armadio della casa al mare, dove le aveva riposte con cura, perché non facessero disordine.
Photo credits: Andrea Guermani/Davide Bozzalla
Sindrome da ordine compulsivo : succede sempre quando finalmente riponi quello che ti gira per casa e fa casino. Bella soddisfatta paga di quel ripulisti salvo poi avere ovviamente bisogno proprio di quello ; andare la’ doveva giaceva esso scompostamente da secoli e rimanere come un cane da caccia in punta di fagiano. Interrogativa guardarsi intorno circospetta e non avere la purché minima idea di dove tu l’abbia cacciato in preda Ale tue rare ma drammatiche manie di ordine.
…il disordine ha un suo senso, alle volte. Ma i casi sono due: o diventiamo definitivamente ordinate o lasciamo stare tutto com’è.
Mai spostare un oggetto dal solito posto, non lo ritroverai mai più!
vero! anche il disordine ha un senso