Status symbol dei periodi di opulenza, che fossero i Sessanta del boom economico o gli Ottanta dell’edonismo reaganiano, oggetto di riprovazione nel corso dei Settanta contestatari, snobbate dagli stilisti costretti per opportunismo a surfare sull’onda mainstream, appannaggio di vecchie signore piene di charme ma sempre un po’ avvolte in effluvi di naftalina, le pellicce sono tornate, e in grande spolvero. Nuove, ecologiche ma anche no, ma soprattutto riciclate.
Negli ultimi anni qualcuna aveva fatto trasformare un mantello un po’ demodé in un morbido poncho per coprire le spalle a un matrimonio d’inverno, mentre altre si facevano “rimettere a modello” il cappottino dal taglio rigido aggiungendo cappucci e fusciacche anche se osavano indossarlo solo nel tragitto in auto città/montagna nel weekend per sostituirlo all’arrivo con una giacca a vento più unterstated, ma in generale le “bestie” restavano negli armadi.
Anche perché un visone, uno zibellino, una volpe ma persino un più modesto castorino non erano pezzi da mettere nel cassonetto della raccolta abiti agli angoli delle strade. Quanto a regalarli, si rischiava di fare una figura barbina (ma chi si crede di essere quella, a regalare una pelliccia?), peggiorata dal fatto che la destinataria poteva essere un’animalista convinta e quindi ritrovarsi accusate di antiecologismo e ogni crudeltà soltanto per aver cercato di fare posto tra i cappotti.
La mia generazione poi si è ritrovata con una quantità particolarmente imbarazzante di questi reperti per il semplice motivo di aver avuto madri (e nonne e zie e prozie) per le quali la pelliccia era stata una conquista, la testimonianza di un raggiunto benessere familiare, il regalo a cui tutte ambivano dopo un paio d’anni di matrimonio, il pegno d’amore che, come nei film con Alberto Sordi (ma spessissimo anche nella realtà), i mariti acquistavano in duplice copia: una per la moglie, l’altra per l’amante.
Erano gli anni dei pellicciai favolosi, delle sfilate negli atelier con modelle che sembravano zarine di tutte le Russie, anni in cui a inizio dicembre ancora nevicava, mica come adesso, e con il colbacco di volpe tutte si sentivano Julie Christie nel film Il Dottor Zivago. Anni in cui mia zia andava in giro con una pelliccia di ocelot.
Sterminati interi allevamenti e riempito a dovere gli armadi quattro stagioni, la frenesia fu fermata dalle contestazioni del Sessantotto e anni limitrofi e le signore che avevano fatto tanto per farsi regalare la pelliccetta furono costrette a riesumare i cappotti mentre le loro figlie preferivano i montoni rovesciati di provenienza afghana originale e per questo alquanto puzzolenti ma adattissimi per (atteggiarsi a) consumare droghe provenienti dai medesimi luoghi.
Con l’Era degli Stilisti Famosi (nel settore, prime fra tutte le Sorelle Fendi) e della Milano da bere le pellicce fecero il loro ritorno in grande stile e sull’onda di un gigantismo che investiva ogni particolare – dalle acconciature voluminose alle spalline esagerate – si presentarono con una cascata di marmotte, lupi, linci e volpi di ogni colore con orli che arrivavano giusto qualche centimetro più su del punto da cui partivano i doposci di pelo, esagerati anche quelli.
Quei mantelli a pelo lungo portati da noi trentenni furono poi cancellati insieme alla Prima Repubblica mentre Marina Ripa di Meana manifestava insieme agli animalisti indossando una pelliccia insanguinata. Le maculate hanno resistito un po’ di più: il pelo corto facilitava la confusione con le pellicce ecologiche e l’animalier non passa mai di moda, ma per l’ocelot della zia (che nel frattempo se ne era liberata regalandomelo per il mio quarantesimo) non era ancora tempo.
Oggi le pellicce te le ritrovi un po’ ovunque: sulle spalle di ragazzine che si sono comprate da Zara giacchini dai riflessi cangianti e a rischio incendio tanto sono sintetici, come su quelle delle temerarie over-anta che hanno tirato fuori la pelliccia di mamma tout-court, senza nemmeno aggiornarla. Sono facilissime da riconoscere: basta guardare l’ampiezza delle maniche o la foggia dei colli.
Le giovani e le influencer le acquistano nei negozi vintage o al banco di Lele Mora al mercato di Piazza Benefica a Torino. Sfoggiano senza timore i giacchini da sera o le stole delle nonne e le pellicce anni Ottanta che le loro madri boomer hanno lasciato in conto vendita (si poteva fare un passaggio diretto madre-figlia, ma così almeno si guadagna anche qualcosa, visto che ci erano costate un occhio).
Pochi giorni fa mi ha attraversato la strada una fanciulla in una pelliccia di volpe bianca identica a quella della mia amica Marichi al solarium della scuola di sci di Sestriere: correva l’anno 1983, lo stesso anno di Vacanze di Natale con la Sandrelli e il Dogui in pelliccia che arrivano a Cortina “in un giro di Rolex”.
Nel quarantennale dell’uscita del film La Marghe ha fatto furore a una festa di Capodanno a tema, riesumando cappotto e colbacco pelosi di sua nonna che giacciono da anni inutilizzati nel mio armadio.
Torino, Londra, Cuneo, Milano, da Prato Nevoso alle Dolomiti, al mercato come alle conferenze del Circolo dei Lettori è tutto un tirare fuori animali morti da decine di anni e riproposti in fogge sbarazzine. Il guardaroba del Teatro Regio a ogni replica si riempie di mantelli di ogni foggia e qualità, chi ha riscoperto la stola la sfoggia anche in platea, chi proprio non se la sente di esagerare almeno un cappottino con bordura te lo esibisce.
Tanti i gilet portati sopra o sotto cappotti e piumini ma anche cappotti in pelliccia dalle linee che riprendono i classici tagli di Max Mara o Hermès. In mancanza di veri leopardi Aspesi propone per la prossima primavera l’imprimé maculato per gli impermeabili. L’ocelot della zia ha finalmente trovato casa all’interno di una KWay, e ci sta benissimo.
E il mio “parka da cantiere”, il cui interno è fatto con il visone anni Sessanta di maman a cui è stato rasato il pelo e sembra una pelliccia ecologica, è perfetto per andare in bici tra novembre e febbraio, ma devi avere una pellicciaia brava e con buone idee, tipo la mia. Grazie Silvia Chiovato.
Ho tolto un rabadàn dall’armadio e ho riciclato un capo al 100%: altro che fast fashion, torniamo alla pelliccia di mamma, alla slow fur che tiene caldo. Tanto quelle povere bestie sono più vecchie di noi e oggi (ma anche già anni fa) sarebbero comunque morte di vecchiaia: diamo loro una seconda chance.
Sempre brava e appuntita. Come al solito, ti leggo e mi diverto tanto.
Grazie 😊
Buonpomeriggio :ironica e accurata cronistoria di un
vissuto assolutamente condiviso
Gabriella Ferrero
Buonpomeriggio,
ho letto, con gran divertimento,questa ironica e puntuale cronaca di un vissuto condiviso
Grazie bravissima :un momento di autentico relax
cordialmente
gabriella ferrero
Grazie, continui a seguirmi: ogni settimana pubblico un nuovo argomento o un personaggio. E mi faccia sapere le sue impressioni