Mi è sempre piaciuto il primo giorno di scuola.
Non sono mai stata una secchiona, chi mi conosce lo sa. Mi piaceva e basta.
Le vacanze avevano esaurito tutto il loro potenziale di divertimento, libertà, trasgressione, viaggi e nuove conoscenze. Gli ultimi giorni di settembre (la scuola allora iniziava il primo Ottobre, ricordate?) erano tutto un trascinarsi dalla camera alla televisione con poche idee e poche alternative, con i compiti delle vacanze finiti di corsa e le lezioni di recupero per rinfrescare le idee su latino o matematica.
La permissività dei genitori in quanto a uscite con gli amici si era drasticamente ridotta, sia in termini assoluti che per quanto riguardava gli orari di rientro. Il fuso orario era tornato ad essere quello di città.
Ma sapevo di poter contare su quel benedetto primo giorno di scuola. E anche quando a scuola non ci andavo più io ma laMarghe mi piaceva quella sensazione dell’esistenza che tornava tra le righe, ma non da subito, non proprio quel giorno lì. Per me era come un cuscinetto di compensazione tra le giornate sfilacciate e caotiche della vacanza e la realtà dei nove mesi a venire. Ci voleva proprio quel tempo ancora sospeso altrimenti il passaggio sarebbe stato troppo traumatico. Certo, sarebbe arrivata la doccia fredda delle ansie, delle verifiche, dei libri dimenticati, delle interrogazioni a sorpresa, della voglia-di-alzarsi-zero, dello«sbrigati che facciamo tardi», delle colazioni trangugiate in fretta e di un anno tutto da costruire. Ma non il primo giorno, non ancora.
Mi piaceva il primo giorno di scuola perché era come prendersi il lusso di restare ancora qualche minuto a sognare nel calduccio del letto dopo che la sveglia è suonata.
Poi, inesorabilmente, arrivava il secondo giorno.
Nella foto: la Quinta C della Scuola Elementare Michele Coppino. L’anno non ve lo dico…